Un piccolo estratto della storia della Canapa ai tempi del Fascismo.

Molti sanno i numerosi utilizzi che si possono fare della canapa e che la sua coltivazione e sfruttamento da parte dell’uomo risale più di 2500 anni fa.

Non tutti sanno però che l’Italia ha una prestigiosa tradizione in questo campo sia per qualità che per quantità di cannabis prodotta.

Tra l’altro, paradossalmente, il periodo di massimo splendore per il settore canapicolo italiano è stato tra i primi anni ’20 e la metà degli anni ’40, in pieno periodo fascista.

Tra fine ‘800 e inizio ‘900 il filato italiano di canapa era rinomato in tutto il mondo per morbidezza, lucentezza e bianchezza.

Queste coltivazioni erano distribuite soprattutto nel Nord Italia e si calcola che nel 1923 il settore impiegasse circa 20.000 persone come riporta il Catalogo del Linificio e Canapificio Nazionale. Tale catalogo era espressione dell’associazione di industriali nazionale. Insomma, non era roba da drogati capelloni come una certa parte dell’opinione pubblica vuole far passare chi fa business con questa pianta, ma di prestigiosi uomini d’affari.

Importanti stabilimenti di lavorazione di questa pianta si trovavano a Cassano d’Adda, dove già nel 1895 c’era una corderia che esportava in tutto il mondo e a Genova che vantava un’azienda di filati per l’industria navale prima in tutto il Mediterraneo per produzione.

L’Italia era talmente all’avanguardia in Europa che nel 1913 l’Ufficio per l’Interno del Reich aveva redatto una relazione sulla coltivazione e la lavorazione della canapa in Italia.

Questo uno stralcio: “L’estensione complessiva della coltivazione della canapa in Italia è attualmente da valutare attorno ai 90.000-100.000 ettari. Al primo posto è decisamente l’Emilia, in particolare la provincia di Ferrara, dove circa il 12% di tutta la superficie è lavorato a canapa”.

Nel 1918 nasce poi il sindacato di Filatori e Tessitori di Canapa.

Naturalmente anche questo settore viene coordinato e vigilato dalla Confederazione Fascista Agricoltori, che controllava tutti i consorzi.

In pratica disciplinava la produzione, proporzionandola alla richiesta del consumo, utilizzando i terreni e le zone più adatte, ma anche valorizzava i prodotti, il seme e i derivati, e promuoveva i processi di macerazione della fibra e l’evoluzione tecnica.

a rilevanza del settore canapa era tale che il Duce stesso così si esprimeva nel 1925: “La Canapa è stata posta dal Duce, all’ordine del giorno della nazione, perché per eccellenza autarchica è destinata ad emanciparci quanto più possibile dal gravoso tributo che abbiamo ancora verso l’estero nel settore delle fibre tessili. Non è solo il lato economico agrario, c’è anche il lato sociale la cui incidenza non potrebbe essere posta meglio in luce che dalla seguente cifra: 30.000 operai ai quali da lavoro l’industria canapiera italiana”.

L’inizio del declino della reputazione della cannabis avvenne pochi anni dopo quando inizia il processo storico che ci ha portato alle falsificazioni e alle mistificazioni odierne.

L’hashish, suo derivato ricreazionale, viene dichiarato nemico della razza e droga da “ne**i”.

Nonostante ciò, fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale l’utilizzo industriale della pianta continua a crescere.

Nel 1941 nasce l’ENEC, Ente Nazionale Esportazione Canapa, che ha il monopolio della vendita all’estero sia della canapa greggia e pettinata sia della stoppa di canapa e ne controlla l’esportazione dei manufatti. Sempre nello stesso anno poi, la superficie coltivata a canapa passa dai 60 mila ettari del 1934 ai 102 mila.

Questo è l’apice della produzione in Italia, da qui in poi inizierà un tracollo inarrestabile.

Un declino voluto da politica e lobby internazionali, che hanno spinto l’utilizzo delle fibre derivate dal petrolio come rayon, nylon oppure del cotone.

D’altronde l’Italia era entrata nel blocco occidentale e il Piano Marshall non ammetteva repliche in fatto di scelte strategiche industriali ed economiche.

Così il boicottaggio americano insieme al suo proibizionismo ne fa una questione ideologica e definisce i contorni di un’opera malvagia: il lento declino di una delle piante più utili per l’uomo e la sua demonizzazione.

Il risultato è stato l’estinzione di ogni tipo di coltura su scala nazionale arrivata del 1971.