È senza dubbio un prodotto dai mille impieghi, da quelli terapeutici a quelli tessili, passando per quelli alimentari, il biogas e i prodotti cosmetici. Ma non solo: secondo uno studio del professore Ferdinando Ofria dell’Università di Messina, le potenzialità economiche del settore sono notevoli, all’incirca sei miliardi l’anno per lo Stato italiano, applicando una tassazione simile a quella per i tabacchi, pari al 75 per cento del prezzo di vendita.
Questo agevolerebbe il gettito fiscale e farebbe aumentare i risparmi in termini di spese di repressione, regolamentazione e sanitari, aumentando la qualità del prodotto  e dando allo stesso tempo un duro colpo alla criminalità organizzata.

Insomma, la legalizzazione e regolamentazione della canapa industriale servirebbe proprio all’Italia, eppure la si guarda come una “droga” osteggiata e così facendo i coltivatori e produttori si trovano una sorta di limbo.

Il paradosso della situazione attuale: coltivatori e non venditori

Dopo l’esclusione della cannabis light dalla legge di bilancio, la presidente del Senato Elisabetta Casellati ha chiesto ai promotori della causa di proporre un DDL specifico. E, quindi, di nuovo, come in tantissimi altri ambiti l’arretratezza dell’Italia si scontra con i grandi passi avanti fatti negli altri Paesi, in particolare Francia, Olanda, Germania.

Ma come si può rinunciare ad un mercato così fervente?
Sembra assurdo ma l’Italia ad oggi favorisce l’importazione. Lo stralcio della norma che apriva alla commercializzazione della cannabis light dal DDL Bilancio ha creato un paradosso: gli agricoltori possono coltivare canapa legale con un limite di Thc dallo 0,2% allo 0,6%, ma non possono commercializzare il fiore per l’assenza di una norma legislativa che fissi i limiti di Thc.

Questo è stato denunciato anche dal Cia-Agricoltori Italiani: “Il Parlamento porti chiarezza per un settore che negli ultimi anni ha visto un rilancio importante della produzione a partire dai giovani agricoltori. Oggi chi produce ha delle regole e chi trasforma non le ha… lo Stato è inadempiente. Noi non abbiamo mai chiesto di coltivare canapa – spiega – “ma il mercato ha posto le condizioni perché questa potesse diventare una coltura che in rotazione poteva dare reddito, lo ha dato e bisogna dire che anche da un punto di vista ambientale dà una serie di vantaggi. Si sono avvicinate aziende farmaceutiche, tessili, cosmetiche e industrie che producono materiali per la bioedilizia. Non ci interessa produrre droga nel mondo ma fare le cose nel pieno della legalità”.
È quindi chiarissimo che la politica non riesce a regolamentare un settore che nel resto del mondo è in forte crescita.

Le conseguenze della legge di bilancio: il modello italiano

Prima di approdare in commissione Bilancio ci sono stati tavoli tecnici, sono stati sentiti i produttori e i trasformatori, tossicologi e studiosi e ne è venuto fuori un testo che cercava di regolare e dare risposte a due comparti diversi: quello della biomassa di canapa per le industrie e quello per la vendita delle infiorescenze (la cannabis light).

Dopo la sentenza della Cassazione dello scorso maggio è partita un’ondata di repressione: continui controlli nei negozi, sequestri quasi sempre poi annullati, sanzioni, un clima di terrore che ha spinto molti a chiudere.
La battaglia politica condotta dalla destra in Parlamento – con Matteo Salvini che è arrivato a ringraziare Casellati per aver salvato l’Italia dallo «Stato spacciatore» – ha causato uno stop complessivo. Serve un Decreto Legge a parte, è la tesi della presidente del Senato, perché qui non si tratta solo di introdurre delle imposte, ma di intervenire sulla legge esistenti, la 242 del 2016, in tema di sostanze stupefacenti.
Inutile girarci intorno: sono centinaia di imprenditori che saranno messi in ginocchio dalla battaglia della Lega e di Fratelli d’Italia contro la cannabis legale e nessuno di loro ha mai chiesto la “droga di Stato” o la droga libera o la liberalizzazione della cannabis. «Abbiamo finalmente l’occasione di affermare un modello italiano esportabile in altri Paesi anziché subire il predominio delle aziende americane, cinesi e di altri paesi europei» scrive Federcanapa in una nota.
Ma il loro motto non era “prima gli italiani?”